L’ultima spiaggia

Effetto estate

Sul finire dell’estate mi capitava talvolta, da ragazzo, di ripercorrere con la memoria il ‘tempo di libertà’ appesa trascorso e di accorgermi così di un’insistente sensazione (di una piccola ‘rivelazione’): quei tre mesi mi sembravano aver avuto una durata indefinita, più lunga, quasi, di tutto il resto dell’anno, passato naturalmente sui banchi di scuola. È la stessa piacevole sensazione a essersi ripresentata in questo folle 2020, in cui l’estate si è come incastrata, improvvida, tra due picchi di una pandemia ancora lungi dall’essersi esaurita. È la medesima impressione che si prova visitando Lestate sta finendo, mostra ideata da Piotr Hanzelewicz e Matteo Ludovico   realizzata con la collaborazione di Christian Ciampoli ed Edoardo Guadieri. Solo che, in questo caso, l’estate di cui si celebra la fine è un’estate durata quarant’anni – quelli, esattamente, passati dal 1980 ad oggi e che una percezione sempre meno adeguata del reale ha consegnato alle ultime generazioni nella forma di un destino di inazione a prima vista insuperabile. Leffetto estate ha investito infatti, questa volta, un’intera epoca, contrassegnata più che da ogni altra cosa dalla propria inclinazione a immaginare la fine dei tempi (nel cinema, per esempio), volta alla rappresentazione ossessiva e in fin dei conti arrendevole dell’apocalisse prossima ventura (“apocalisse” significa in origine proprio “rivelazione”). Il 2020 è stato l’anno in cui un’estate apparentemente destinata a durare per sempre si è infine conclusa, lasciandoci sul ciglio di un’ultima, malinconica festa in spiaggia o sul prato cosparso di rifiuti dell’ennesima scampagnata ferragostana, prima di una tempesta che, invece, potrebbe seriamente non finire mai più.

Il Novecento finisce questanno

Diciamocelo infatti: il Novecento è stato un secolo tutt’altro che breve. Il Novecento finisce quest’anno, per davvero. Con una proroga inattesa, molte delle aspettative, dei sogni e delle speranze di quello straordinario secolo hanno continuato ad allignare in questo scorcio di nuovo millennio, aprendosi però sempre di più, almeno in effigie, all’angoscia che precede un disastro palese. Fino a che… ebbene, fino a che il disastro non ha preso la forma ben tangibile di una pandemia globale, mettendo sotto gli occhi di tutti quello che stava e sta realmente accadendo, a discapito del nostro continuare a vivere, piuttosto allucinati, nel solco di un passato tanto aureo quanto perduto. Ecco allora che la mostra ci autorizza a sostare ancora qualche giorno – e anzi, qualche notte, nelle ore che precedono l’alba, ovvero, il risveglio – nell’interregno di leggerezza che quest’estate 2020 ha regalato, almeno in Italia, a un’umanità ormai sull’orlo di una catastrofe sempre più conclamata. Mentre fuori infuriano gli elementi e risuonano le trombe dei sette angeli che preannunciano una dopo l’altra le sciagure del nostro tempo, noi ci siamo goduti ancora quel che resta del Novecento – per quanto nella forma residuale e fantasmatica di una prelibatezza da gustare in articulo mortis. Come in uno di quei film in cui il protagonista si ritrova a vivere sempre lo stesso giorno (Ricomincio da capo, The Edge of Tomorrow, Prima di domani, ecc.), l’umanità del nuovo millennio sembra condannata, insomma, alla ripetizione incessante di uno stesso copione, quello di un mondo che non è più capace di immaginare altro se non l’apocalisse prossima ventura. E a ragione, si direbbe pure – se non fosse che questa volta la capacità di immaginare non procede affatto di concerto con la capacità di agire in maniera concreta. Anzi, più ci lasciamo andare a fantasticherie concernenti la nostra estinzione, più il nostro potere di cambiare le cose si riduce drasticamente. È di questa schisi tra immaginazione e azione che ci parla, tra l’altro, Lestate sta finendo, proponendoci un ambiente finemente strutturato che lascia però all’indeterminazione della scelta, nostra e degli artisti, la struttura dell’evento che avrà luogo al suo interno.

Formidabili anni 80

Un bel prato verde, un po’ di spiaggia, una piscinetta, alcune postazioni di relax – vecchi videogiochi arcade e una hit del 1985*, intitolata appunto Lestate sta finendo, dei Righeira, autori anche, qualche anno prima, di Vamos a la playa (1983). Il quadretto potrebbe sembrare un’operazione nostalgica, ma è lungi dall’essere tale. Hanzelewicz e Ludovico ci riportano sì indietro nel tempo ma per rendere ancora più brusco e traumatico il risveglio, qualora qualcuno non si fosse accorto che le cose stanno davvero precipitando. D’altronde, i formidabili anni ’80 che fanno da cornice generale all’operazione non sono stati certo una passeggiata, a fronte della rappresentazione pacificata che sui media hanno dato, con tono trionfante, di se stessi. Cernobyl, la caduta del Muro di Berlino, l’avvento della deregulation economica e il successo di Mtv (nata proprio nel 1980), segneranno l’inizio di una lunga fase storica immersa nella propria crescente irresponsabilità. È allora, si potrebbe dire, che tutto è cominciato, che l’apocalisse ha iniziato segretamente a manifestarsi e a occultarsi, allo stesso tempo, a montare e a dissimularsi, in un colpo solo. È allora che il mondo ha principiato ad andare in pezzi, facendo però mostra di non avvedersene. Concedendoci ancora un pezzettino di questa assurda sospensione del tempo ordinario, l’opera ambiente che visitiamo ci permette di recuperare un po’ di consapevolezza, non foss’altro perché quell’estate di cui abbiamo usufruito come di un supplemento insperato ci è mostrata antifrasticamente come qualcosa che si sta ormai del tutto consumando. Come, insomma, un inesorabile vicolo cieco, analogo allo spazio chiuso dell’esposizione in cui l’estate è stata catturata e, per così dire, compressa una volta per tutte. Sottolineando i gesti quotidiani con i quali abbiamo beneficiato di un intervallo felice tra momenti peraltro drammatici, e restituendoceli anche nella forma di una serie di interventi acustici deviati e improvvisati (condotti senza l’ausilio né di prove, né tantomeno di una partitura da seguire), l’istallazione ci porta al cospetto del nostro egoismo di massa e del loop in cui sembriamo bloccati ormai da troppo tempo.

Il tempo è breve

Inizialmente, prima che la pandemia cambiasse radicalmente i nostri modi di vita, Hanzelewicz e Ludovico avevano pensato di allestire uno spazio che sarebbe stato attraversato da una persona alla volta e che avrebbe richiesto una meditazione solitaria e persino ascetica della sua configurazione istallativa. Gli eventi hanno tuttavia quasi avverato quel progetto, depotenziandolo, e costretto così i suoi autori a rivederlo alla luce delle nuove condizioni (sia pure conservando l’idea di un’immersione in un’ambientazione sonora variabile). Un punto apparirà allora particolarmente chiaro a chi si troverà a trascorrere qualche ora nei locali di VarcoLabile, dal 18 al 20 settembre, un punto che concerne la natura non rinviabile del nostro intervento. Per quanto si possa fare a meno di preoccuparsi di ciò che accade intorno a noi – cambiamento climatico incipiente, tragica riduzione della biodiversità, inquinamento generalizzato della natura, crisi economiche senza precedenti, destabilizzazioni geopolitiche capillari e chi più ne ha più ne metta – la presenza sorda di un mondo alla deriva non cessa di perseguitarci, dimostrandoci ad ogni piè sospinto che il tempo per cambiare le cose è sempre breve – e, in un certo senso, lo è sempre di più, breve. Se il Novecento finisce è insomma perché si porta via con sé la speranza automatica e anzi la certezza che il futuro sarà migliore del presente. Oggi sappiamo, al contrario, che il futuro non potrà che essere peggiore e che, se vogliamo fare qualcosa in merito, dobbiamo necessariamente affrettarci. Non c’è più tempo di aspettare che l’estate finisca, per rimettersi al lavoro, non c’è più tempo per indugiare in una gioventù fuori tempo massimo. Dobbiamo imparare a lavorare anche durante le ferie. Continuare a banchettare, ubriacarsi e tergiversare, mentre la nube tossica sterminatrice sta per arrivare – come in Lultima spiaggia di Stanley Kramer (USA, 1959) –, non sembra insomma la strategia migliore da adottare.

Lestate o la vita?

Ci sono estati che rimangono nella memoria per sempre, fissate nei meandri di una vita al pari di una gemma incastonata nella roccia o di una perla nascosta nella bocca di una volgare conchiglia. Vi sono estati, insomma, che valgono una vita intera, nella misura in cui ci offrono avvenimenti che non si cesserà di raccontare e di raccontarsi per il resto della propria esistenza. È forse questo il caso dell’estate 2020, vissuta pericolosamente sul limitare dell’abisso? Se così sarà, lo sapremo probabilmente soltanto a cose fatte, quando e se saremo riusciti a tirarci fuori, con un gesto à la Barone di Münchhausen (tirandoci su per il codino), dal disastro che noi stessi ci siamo preparati. Una cosa tuttavia è certa: al netto della nostra indolenza nel cercare di cambiare le cose, l’avvertimento ci è stato dato. Sappiamo quello che ci aspetta se restiamo intrappolati ancora dentro lo spazio che Ludovico e Hanzelewicz hanno allestito con tanta cura e, è il caso di dirlo, con così feroce lucidità e impietosa ironia. Non ci resta che affrontare il dilemma di questa nostra epoca – l’estate o la vita. Tertium non datur. Che cosa sceglieremo?

Daniele Poccia

* Lelenco delle coseesposte è parziale e sta ad indicare comunque un catalogo potenzialmente infinito di trouvaille e ready made identificativi di un certo mood esperienziale fine Novecento e inizio XXI secolo.